Di poetry slam, del ballare e di altre insicurezze

Sono contenta.

Sono di ritorno da un poetry slam in Belgio, il primo internazionale a cui io abbia partecipato. Ci sono andata insieme a due amici  – Giacomo Sandron e Sergio Garau, con i quali da due anni, a Torino, organizziamo un torneo di poetry slam, Atti Impuri poetry slam – eravamo la squadra italiana. C’erano 24 squadre in tutto (da molte città francesi e belghe e poi spagnoli, tedeschi, giapponesi(!), inglesi, ecc…), molte, noi siamo arrivati quinti.

Perciò son contenta.

Son contenta perché fa piacere portarsi a casa un buon risultato, son contenta perché ho conosciuto molte e belle persone, per tutta la festa che c’è stata e per i mille motivi che potete immaginare e di cui però a voi può interessare proprio poco.

Ma poi son contenta per quest’altro motivo, che forse può invece essere condiviso e utile.

In realtà trattasi di cosa privata, mia intima, ma credo sia condivisibile da molti esseri umani (spesso donne per tante ragioni cultural-sociali ecc ecc che qui non sto a dire… le dico sempre).

Questo motivo per cui son contenta ha a che fare con il ballo, in qualche modo.

Io sono una di quelle persone che quando deve fare qualcosa di nuovo viene attraversata, anzi trafitta da questo pensiero, che si presenta per primo e che tende a imporsi e che si palesa con una voce che dice così: non ce la farò mai, sono troppo stupida, è al di sopra delle mie possibilità.

Sempre.

Una volta questo pensiero mi paralizzava. Rimanevo ferma. Con il tempo ho imparato a ballare con questo pensiero, dico ballare perché è così che succede, una specie di danza.

Prima metti questo piede storto, un passo falso, minchione, poi con l’altro lo superi. Per superare il primo devi metterci un’energia pazzesca, così non è detto che quando atterri sul secondo tu sia del tutto dritta, stabile, e magari ti ci vogliono altri due, tre saltini di assestamento per riprendere l’equilibrio. Hop, hooop, hop hop hop. A volte si cade, certo.

Ma in qualche modo si va avanti, ne viene fuori una specie di andatura bislacca e molto storta che è la mia.

Mi piacerebbe prima o poi riuscire a camminare dritta, senza che il primo passo sia quello sghembo, auto-boicottante. Ma per ora è così, ballo: passo storto, salto avanti, arripasso storto arripasso avanti, raddrizzare. E via.

Quando mi hanno proposto questo slam ho pensato che bello ma ho anche pensato: merda.

C’erano alcune cose difficili per me, una su tutte dire i testi a memoria (non era obbligatorio, ma volevo farlo in un contesto in cui i più lo fanno). Lo so che sembra idiota, imparare un testo a memoria non è una cosa incredibile, ma io sono una che in passato si metteva a piangere per l’emozione se doveva parlare davanti a tutti, figuriamoci ricordarsi qualcosa a memoria e dirlo davanti a molti.

Quando ho fatto il primo reading, anni fa, ho registrato un nastro (c’erano ancora le “musicassette” all’epoca – argh!) che ho fatto ascoltare in apertura, in cui chiedevo alle persone di andarsene perché era possibile che non sarei riuscita a leggere senza strozzarmi con il mio stesso fiato e offrire un pessimo spettacolo. Ho pensato che era meglio avvisare. Era un po’ scherzoso ma era anche tragicamente vero.

Il foglio a cui stare aggrappata mentre dici poesie in pubblico, quindi, era un ultimo retaggio di quella persona lì che sta dentro di me, anche ora che sui palchi ci sto con un certo agio e piacere e che non piango più quando parlo in pubblico.

Stare aggrappata al foglio, leggere da lì, mi faceva sentire al sicuro. Così mi  sono permessa di tenerlo, il foglio-stampella, fino a quando è servito, senza farmi violenze. Poi ho iniziato a sentire che poteva non servire più.

Ed ecco l’occasione: lo slam internazionale.  Facendo un balletto interiore mica male (passo storto, salto, hop hop) sono riuscita a confessarmi che era ora di togliere il foglio. E alla fine l’ho fatto, mi sono ricordata il testo a memoria e sono riuscita a godermi l’esecuzione che, per forza di cose, è stata diversa, molto diversa da quando leggo. Meglio, secondo me.

Certo, al primo testo volevo fuggire in una landa desolata, avrei volentieri riproposto il mio nastro registrato per dire a tutti che non si aspettassero nulla da me, ma poi è andata.

Vi dico questo non perché pensiate ooooh che brava, ooooh ce l’ha fatta, ma perché, forse, questo mio piccolo racconto condiviso dice qualcosa che è anche nelle esperienze di altri (altre), in cui anche altri (altre) vedono un piccolo specchio delle proprie piccolezze, delle proprie vocette stronze. Voglio raccontare a chi, come me, convive con l’insicurezza che ti si mangia tutta, che mi è stato fondamentale concedermi i fogli (grazie fogli, grazie musicassette, se non ci fosse stati voi sarei caduta malamente e non avrei fatto il secondo passo) per arrivare a buttarli via quando è stata ora. E che ballare con i propri piedi storti può essere un piacere.

Voi gente sicura lo troverete patetico, ma noi altri dai piedi storti dobbiamo fare delle coreografie della madonna, per stare in piedi. E sapere che anche altri devono fare questi balletti assurdi per stare in vita, a me ha sempre dato una mano.

E poi ve lo scrivo perché ora si tratta di affrontare la fase due, quella in cui mi dico che ce l’ho fatta perché era facile (Enrica Tesio, come vedi faccio parte del club).

Perciò lo scrivo qui: non era un cazzo facile, ma ho ballato!

Così quando mi serve rileggo.

Vi auguro buone danze, qualunque cosa abbiate, piedi storti e piedi dritti.

p.s. il primo che mi vede di nuovo con i fogli in mano durante gli slam e mi fa una qualche battuta delle palle verrà calciato con il mio piede storto.


e altre cianfrusaglie

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