Affollamenti. Senza andare a capo.

Le persone ti abitano. Più le ami, più dimorano dentro di te. A volte, questo amoroso abitare diventa una specie di assedio interiore.
Ho una casa affollata, attualmente. Stanno, persone dentro di me, con dimora stabile, molte le amo. Passano, persone, entrate per un saluto, un incrocio e poi. Restate. Nemmeno mi è chiaro l’insieme di sentimenti che provo per alcune, molte, poi, mi mancano nel corpo ed è incredibile il frastuono che può fare l’assenza. Eppure, dentro, si muovono queste persone, fanno i rumori e le voci e il disordine del vivere, fanno il respirare e il litigare, fanno lo spavento e la risata e tutte quelle cose delle persone, movimentando stanze fra passato e futuro.
Nel presente avrei veramente bisogno di riposare, ma non mi riesce di sentirmi da sola stasera e non sentire i rumori. Allora mi metto al centro della casa, persone, ascolto, ascolto: dite.

Vento a Torino

Oggi a Torino c’è il vento. Che è una cosa strana. Noi torinesi il vento non lo sappiamo bene. Ci si guarda un po’ così, lo si tratta da spiffero, nel pensare: Ma da dove è passato?
E ti viene da fissare le montagne con sospetto. Se ne stanno lì, innevate, ferme, e ti domandi se staranno continuando a fare il loro dovere.
Il vento muove le cose che prima stavano ferme, un sacchetto di plastica che nessuno guardava ora vola nel cielo e stai lì a sperare che non lo acchiappino i rami degli alberi e possa fare un viaggio più lungo, invisibile allo sguardo, che sa un po’ di infinito.
Quando c’è il vento ti viene il nervoso dei capelli e l’elettricità dei corpi.
Ma soprattutto guardi la punta della Mole che sfida l’aria e pensi a cosa accadrebbe se si mettesse a volare. 
Poi torni a casa, che i capelli si disfano e il vento non lo sai bene.

Il mio Neo preferito

Anni fa ho conosciuto Angelo Biasella e Francesco Coscioni, gli editori della Neo, una piccola casa editrice abruzzese. 

Ho pensato, vista la loro linea editoriale, che potevano essere le persone giuste cui mandare il mio lavoro. Ed ho avuto ragione.

Ad anni di distanza non posso che confermare quella mia prima intuizione. Siamo cresciuti insieme, abbiamo pubblicato quattro libri (loro molti di più, ovviamente). Siamo cambiati, tutti e tre, siamo in parte rimasti fedeli a ciò che ci ha fatti incontrare.

Se devo pensare a me e alla Neo edizioni, penso a gente dai percorsi strambi, un po’ inediti. Sono una che scrive poesia, ma l’ho sempre fatto un po’ a modo mio, stortamente, decisamente fuori dai circuiti canonici, forse perché anche il mio rapporto con il linguaggio della poesia è poco canonico, decisamente personale, spesso sporco, ibrido, mutevole, multiforme, dubbioso e incostante, impaziente di esprimersi, insicuro e, credo, per questo, vitale.

Sul perché di queste mie scelte (e non scelte) magari fra un po’ ci scriverò su, perché credo che possa essere utile anche per altri. Oggi no, non ne ho il tempo.

Ma oggi esce invece un’intervista che racconta del loro percorso, quello della Neo. Che è anche un po’ il mio. Ed è con grande affetto, stima e riconoscenza che lo riposto qui, così che possiate conoscerlo anche voi.

Fare amicizia

 

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Ho scritto un Monologo

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Nel boschetto della nostra poesia

Piccolo (e non esaustivo) bestiario delle forme di vita che popolano il piccolo e fitto boschetto degli appassionati/conoscitori di poesia:
– i sistematici: sanno tutto ciò che viene pubblicato, da chi, cosa è in preparazione e quali sono i posizionamenti del mondo editoriale. Collezionano, registrano, leggono tutto, sono geneticamente tassonomici;
– i muscolari: essi prendono innanzitutto posizione, con forza; la poesia è questo o non è questo; tizio è un genio, tizio fa cagare; odiano e amano senza grandi scale cromatiche intermedie, al massimo saltano dall’altra parte della barricata;
– gli esperienziali: la poesia è un mezzo, un viaggio; brucano di qua e di là, si specchiano e si indagano con la poesia; amano ciò che amano, che sia antico o contemporaneo, sono emotivamente postmoderni; 
– i solipsisti: amano la poesia più delle persone; detestano le occasioni pubbliche di condivisione della poesia; la poesia è un rifugio del quale fruire possibilmente in pochi, meglio se soli o poco accompagnati;
– gli alicinelpaesedellemeraviglie: amano taaaaaantissimo la poesia, l’arte, la beeeelleeeezza; alcuni li vorresti solo abbracciare, sono esseri speciali, altri ti domandi se ci sono o ci fanno: alcuni ci sono, alcuni ci fanno, ma questo vale anche per tutte le altre categorie;
– eccetera 
Tutte queste bestie, spesso, amano per davvero la poesia. Parlano lingue diverse, di frequente non si capiscono gli uni con gli altri. Alcuni sono di sesso femminile, altri di sesso maschile. Scrivono poesie, alcuni no. Hanno vite variegate, nevrosi, accenti, come tutti gli altri cercano un senso, un io sono, ipotizzano un sarò.

Sull’orgasmo non sincronizzato all’ora di Greenwich.

Questo video dice un sacco di cose sacrosante.
Lo condivido e vi racconto qualcosa, perché questo è un argomento che mi ha fatto soffrire in passato e penso che raccontarlo possa servire ad altre e altri. Come molte donne anche io ho passato un sacco di tempo pensando di non funzionare, me ne vergognavo e soffrivo. Nessuno mi aveva spiegato che non funzionava né come nei film – dove l’atto sessuale, qualunque sia il tipo di relazione fra i due amanti, è univocamente descritto con un’unica fine: orgasmo dato da penetrazione vaginale olé olé rigorosamente in tempo sincrono allineato con l’ora di Greenwich, un due tre, insieme, ora! – né che la logica del rispecchiamento con il mio partner mi portava fuori strada: eravamo profondamente differenti in questo e lui ne sapeva ancora meno di me. Non avevo informazioni, non sapevo dove prendere informazioni e la vergogna mi impediva di farlo. Anche le altre ragazze spesso non sono un buon aiuto – almeno per me, all’epoca, non lo sono state – un po’ perché si è tutte differenti, un po’ perché, prese, alcune di loro, dalla mia stessa logica autodenigratoria, non si parlava esplicitamente di questo problema; un po’ perché anche la condivisione del problema non aiuta “meccanicamente” a risolverlo. Banalmente, non c’è la tua amica in camera da letto.

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L’invidia, questa rimuovuta

Chiacchierando con un’amica, un giorno, a proposito di molte cose e poi dell’invidia, lei mi ha detto una cosa che mi ha fatta pensare: L’invidia è uno dei sentimenti più rimossi del nostro tempo.

Penso sia molto vero.
Accusiamo con frequenza e con facilità gli altri di essere rosiconi invidiosi, spendiamo molta energia a ripulire le nostre affermazioni da tracce di invidia. Abbiamo paura di essere e di apparire invidiosi, abbiamo paura di provare questo sentimento, ce ne vergogniamo con noi stessi e con gli altri. Non bisogna essere invidiosi. Non si fa. Non si deve.
D’altra parte, è vero, parlare, dare giudizi e agire per invidia è cosa brutta e spiacevole. Assisto quotidianamente ad esternazioni chiaramente frutto di un’invidia più che altro inconsapevole e ogni volta mi dico, ma che pochezza, ma che tristezza. Vedere persone dominate dalla propria invidia è brutto. Lo stigma sociale che mette al bando l’invidia ha le sue solide ragioni. L’invidia è un disgregatore, un agente distruttore, può fare molto male.
Eppure so anche che ciò che nella nostra psiche viene messo nell’angolino e rimosso fa dei danni enormi.
Quindi?
Come se ne esce?

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Peccato

Io mi ricordo che certi giorni quand’ero piccola mia nonna mi portava in giro per Torino e le piaceva dire in continuazione Oh che bela c’a l’è Turin. E a me sinceramente all’epoca non è che me ne fregasse molto di tutta quella bellezza, mi fregava più di capire se mi stava portando alle giostre belle del Valentino o a quelle scrause del Parco Ruffini che mi spiace ma io proprio non lo sopportavo il Ruffini, mi pareva una fregatura insopportabile essere portata al Ruffini anziché al Valentino e mi faceva venire un nervoso tremendo che cercavano di spacciarmi uno per l’altro che ero piccola mica scema.
Però ora che non ho più certe ansie di giostra mi viene in mente Silvia e quel suo amore per questa città. E vado in giro come lei a dirmi, Ma guarda com’è bella Torino. E non lo dico in piemontese, ma mi sa che il sentimento è lo stesso.
Questa cosa che la gente muore è una fregatura perché poi quando vorresti dire loro le cose, quando finalmente le capisci, loro non sono lì. Però non è che si può fare diversamente, lo so. Peccato.

Gialli, rossi, bianchi

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Che hai mangiato oggi?

Ma perché iniziamo le nostre conversazioni con la formula del “Come stai?”.

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Dialoghi corposi 2

(Puntata precedente)

Corpo, gli ho ridetto, guarda che in pausa pranzo si va a correre!
“Se si chiama pausa pranzo vuol dire che serve a mangiare non a correre” faceva lo strafottente.
Allora gli ho detto che se non la piantava gli facevo QUELLO sguardo.
“Ma va’” ha fatto lui e alzava le spalle.
E quindi mi è dispiaciuto ma gliel’ho dovuto fare.
Ci siamo vestite da catarifrangenti e hop hop.
QUELLO sguardo vs corpo 1 a 0.

Dialoghi corposi 1

Ho detto al mio corpo: Corpo! È lunedì, siamo tornate a casa, ora questa settimana si mangia bene e si fa sport che abbiamo ingurgitato ogni genere di cose e ora bisogna fare un po’ di dieta!
Ha detto: Ah ah…
L’ha detto con aria strafottente che si capiva proprio bene che mi stava prendendo in giro.
Ho detto: Ma oh!
L’ho detto in quel modo che usava mia mamma quando io e mia sorella eravamo adolescenti e davamo le rispostacce. Mi pareva un Ma oh! veramente ben detto e riuscito, pieno di autorevolezza e sottintesi, carico della nascosta veemente frase “Io rispetto te e tu rispetti me”, mi pareva detto come quello che usciva a mia mamma e anche vagamente minaccioso, quella minaccia vaga e perciò ancora più temibile, tipo che poi all’ultimo non ti fanno uscire o cose così.
Non ho detto Ma oh, signorina! Che alla mia età non mi pareva appropriato darmi della signorina, bisogna pur averci un minimo di senso del tempo.
E niente, ho sbagliato. Evidentemente tutto stava nel Signorina! Perché quello s’è fatto colazione e pensava al pranzo come se niente fosse.

(Continua…)

Se stesso o sé stesso (la fatica di)

La fatica di essere se stessi è faticosa.
E’ molto strano come possa essere faticosa una cosa che è un dato di fatto.
Tu sei tu.
Che fatica dovrebbe generare questa certezza?
E invece.
A volte ci affatica che siamo noi, così come siamo, difettosi.
A volte ci affatica ciò che potremmo essere, anche e soprattutto quando non sappiamo esattamente cosa.
A volte ci affatica ciò che vorremmo essere.
A volte ci affatica definire ciò che siamo e a volte ci affatica ciò che ci sfugge di noi.
A volte tutte queste cose insieme.
Ci affatica questo potente e continuo senso di cambiamento che ci aleggia addosso.
Siamo sempre noi, ma cambiamo.
E la scelta. La sempiterna possibilità di scelta.
Non sono concetti semplici.
E ci sono certe domeniche che uno non ha voglia di concetti complessi, vorrebbe magari ciabattare in pigiama e basta, ma niente, non puoi levarti di dosso il fatto che tu stesso, anche in ciabatte, sei un agglomerato di concetti complessi. Identità, storia, scelta, volontà, società, storia e, diciamolo pure, anche morte, la stronzissima.
Non puoi levarti te stesso dai piedi, non del tutto, oppure sì, magari se ti infili in quelle questioni di filosofie orientali e affini, perdita del sé, oppure droghe violente ecc ecc.
Ma io non ho il talento per queste cose.
E tutto sommato mi va bene così, l’andamento ondivago bestemmiante gaudente di te che a momenti balli e altri che inciampi in te stesso magari pure in pigiama.
E per concludere questo post sconclusionato voglio dire questo: se stesso o sé stesso son scritture corrette entrambe. Lo dice anche l’Accademia della Crusca.
Ma fra queste due possibilità rimango sempre un po’ così, sospesa, dubbiosa, affaticata. Come lo scrivo?
Meravigliosa e maledetta possibilità di scelta.
Ti odio e ti amo. (In ciabatte).

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Su certi percorsi dell’infanzia

Mi capita a volte, mentre ho a che fare con adulti che io mi metta a immaginare che bambini sono stati.
Mi  pare talvolta che alla persona in questione sfugga per un attimo qualcosa: piccoli particolari fastidiosi e allora vedo bambine smorfiose, ragazzini prepotenti, o fragilità che lasciano intravedere voci grosse e umilianti, sgridate dall’alto; mi capita quando mi colpiscono certe fissazioni o certe irriducibili serietà, mi capita nello sfoggio della conoscenza di intravedere ragazzini zitti nella raccolta ossessiva di qualcosa, figurine o macchinine o sassi. E poi mi capita per meraviglia e curiosità. Ogni tanto qualche adulto ti permette di vedere cosa ne ha fatto di certi mondi meravigliosi dell’infanzia, come li ha trasformati, e allora è una festa perché vedi che cosa ne è stato di quel potenziale, vedi il fiorire del germoglio e quel movimento di crescita risuona anche in te e richiama la tua ragazzina, le parla di cose che verranno e di mattine e di trasformazioni, le parla della vita quando è buona e le dice che “si può fare”.

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Piccoli deliziosi disagi quotidiani

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Una cosa sulle storie e sulla gente da cui vengo

E mi viene in mente ogni tanto quel racconto mille volte ripetuto di mio nonno e quella frase quando diceva: E ho sposato tua nonna, ma avevo un’innamorata, prima, che non ho potuto sposare perché non avevo la terra.
E mi viene sempre in mente la faccia di mio padre che si storceva perché non gli andavano – credo – tutte quelle storie sulle non-spose di mio nonno, lui che di mia nonna è figlio, e lo capisco.
Ma non è tanto questo.
Che poi le storie di mio nonno sulle sue non-spose erano varie. E non si è mai capito quanto vere. E questa della terra non è nemmeno la più ripetuta. Che addirittura mia sorella dice che lei questa non l’ha mai sentita. E ogni tanto mi viene il dubbio che me la sono inventata. Ma non credo.
Credo invece che stia, questa storia, in qualche parte della mia infanzia primissima giovinezza, quando il mondo lo conosci poco e non afferri davvero per bene certe cose.
Ma in qualche modo ugualmente la faccenda della terra è rimasta lì ad aleggiare. E il mio corpo la risputa a tratti dal gomitolo dei pensieri.
E mi ritrovo a pensare a lui e a quella ragazza che non poteva sposare per via della terra

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IL PROFUMIERE DA CHAT (post scientifico antropologgico sperimentale)

Bene signori e soprattutto signore, questo è un post molto importante di carattere antropologico, un piccolo compendio a seguito di studi approfonditi condotti sul campo con metodo sperimentale. Quel tipo di metodo denominato “bell’esperimento di merda, passerei ora ad altro”.
Voi sicuramente conoscete la categoria antropologica del PROFUMIERE, ebbene, c’è un nuovo esemplare, nato dalla involuzione della specie a seguito dell’interazione uomo-macchina. Si tratta del PROFUMIERE DA CHAT (da qui in poi PDC).
Ora, esistono due tipologie di PDC: quello passivo e quello attivo.
Sul primo, donne, non è che si può dire molto se non: oh, te lo sei andato a cercare tu, smettila e passa al prossimo. Senza giudizio eh? Chi di noi non si è fatta tentare dal CPDT (ci provo da tastiera). E’ tutta salute. Capita. Però devi accettare la possibilità della sola. Ritenta, non è detto che sarai più fortunata, ma tu ritenta, non si sa mai, poi magari, valuta anche l’interazione lontana dalla macchina.
Vorrei invece concentrare la mia attenzione sul secondo tipo, quello attivo.
Il PDC attivo ti cerca lui.
Ti chatta.
Tu eri lì che brucavi nel sereno prato dei cazzi tuoi e lui arriva e ti chatta.
All’inizio magari non te lo caghi, ma piano piano, il PDC s’insinua nelle tue sinapsi sfruttando il tuo istinto secondario di chattatrice. E una cosetta di qua, una frasetta di là, ecco che ti balena il pensiero “OH CHE PERSONA INTERESSANTE”, che sappiamo benissimo, lo so io, lo sai tu amica, che corrisponde a quando l’eroina del film horror chiaramente NON DEVE APRIRE QUELLA MALEDETTA PORTA O AFFITTARE QUELLA STUPIDA CASA INFESTATA DAI DEMONIETTI

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Del cambiar pelle

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Un superpotere

Pensavo che.
Una cosa che ho imparato è: non vergognarmi del bisogno d’amore, di sentirmi unica e desiderata, in tutti i sensi e ambiti possibili.
Tutti vogliono essere amati, tutti.
Tutti vogliono essere apprezzati, tutti vogliono essere scelti per ciò che sono.
E tutti tutti, nessuno escluso, rispetto a questi bisogni (e a molti altri), è vulnerabile.
Così quando la mia vulnerabilità mi pare vergognosa, vado in giro, guardo la gente e penso.
La verduraia che ce l’ha sempre con tutti: vuole essere amata ed è vulnerabile.
Il barista fico che se la tira: vuole essere amato ed è vulnerabile.
Il prof delle superiori stronzo fascista che avevo, pure lui: vuole essere amato ed è vulnerabile.
Fassino, Appendino.
Il tuo collega che sa sempre tutto.
Il presidente della fondazione di sti cazzi.
Gli attivisti duri e puri.
I ribelli a parole.
Il poetone.
Tutti, nessuno escluso.
Per quanto si faccia finta, tutti ce ne andiamo in giro con la nostra vulnerabilità e i nostri bisogni.
E per quanto mi riguarda, saperlo, è un superpotere.

Il naso e le braccia tagliuzzate che però sono una storia sola.

Sono andata alla mostra. C’erano poche persone nello spazio della mostra, così li ho notati subito appena arrivati perché la madre si è messa a parlare forte, più forte di quel sacrosanto modo educato che si usa per parlare alle mostre – sacrosanto che in effetti ci vuole concentrazione alle mostre per vedere e leggere le cose che scrivono sui muri. Così il tono di voce della madre, troppo alto, mi ha distratta. Ho girato la faccia per vedere da dove veniva quel parlare e li ho visti. Lì per lì non mi sono accorta di nulla, erano troppo lontani, ero troppo concentrata sul mio essere infastidita e avevo fretta di riprendere a leggere ciò che stavo leggendo e guardare ciò che stavo guardando con tutte quelle connessioni mentali veloci e molto piacevoli che ti vengono quando percorri i percorsi delle mostre.
E’ stato dopo. Quando la ragazzina mi è passata davanti.
E poi il padre. E poi la madre, accoppiati.
E’ stato lì che mi sono accorta dei nasi.

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San Lorenzo, i desideri e le visioni

San Lorenzo. Arriva la notte per esprimere desideri. Questa è una bacchetta magica vera e potente. La userò stanotte come ogni giorno perché faccia la magia che tutti possiamo fare: quella di trasformare i desideri e i sogni in visioni verso cui tendere, per le quali progettare costruire, muoverci e realizzare mentre il flusso delle cose ci porta con sé nelle strade di questo vecchio, contraddittorio e vivo mondo.
Coltiviamo l’arte della meraviglia e delle passioni, amici.
E buona estate a tutti!

Foto di Guido Mencari

Percorsi: dal gelsomino all’archivio

Una cosa che mi piace molto delle vite delle persone nelle case sono i loro percorsi di solitudine, la solitudine quella bella.
Mi spiego.

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Post lungo su tutte le cose che so sulle maestre

Qualche anno fa ho aperto un gruppo su facebook che si intitola figli di maestra. Era un gioco nato con altri amici figli di maestra. Essere figli di maestra significa sapere tutte delle cose su un mondo, che è quello delle maestre, verso il quale io, figlia di maestra, e altri figli di maestra che conosco, nutriamo una serie di sentimenti che sono in definitiva di simpatia e affetto. Un mondo dal quale ci viene anche una buona dose di divertimento quando ce lo descriviamo a vicenda. Il divertimento è quello che si prova per le cose che sono famigliari, quella roba che è “casa”, quelle cose che appartengono alla tua infanzia, al tuo lessico famigliare, al tuo clan, che ti fanno incazzare e ridere come solo il tuo clan ti fa incazzare e ridere insieme, quella roba che prendi in giro perché è tua ma che difenderesti selvaggiamente da un eventuale denigratore con tutto il suo carico di pregi e difetti, soprattutto i difetti: sono difetti, ma sono quelli del mio clan e ci tengo!
 
Ecco, quindi, in virtù della mia conoscenza approfondita ed esperienza sul campo, del mio titolo di creatrice del gruppo “Figli di maestra”, a puro titolo esemplificativo e non esaustivo, alcune caratteristiche, diciamo pregidifetti, di mia mamma e molto comuni fra le maestre, con la consapevolezza che generalizzare non…
Sì vabbè, comunque le maestre che conosco (e ne conosco) sono così:
– le maestre parlano a voce molto alta, non solo in classe, le maestre tendono a parlare a voce alta sempre
– esse sono capaci di fare lo scan-di-to come nessun altro al mon-do
– inoltre sono bravissime a far fare la fine di…
di?
di fra…
di fra…?
di frase!
Sono bravissime a far fare la fine di frase agli altri
– esse gesticolano molto, poiché le cose debbono essere CHIARE e comprese da TUTTI, esse ti spiegano BE-NE
– esse sono capaci di stare nel caos dei bambini e inoltre lo generano e lo dominano al contempo, esse sono figlie e madri del caos, hanno più occhi e bocche degli altri esseri umani ma al contempo esse sono distratte; hanno superpoteri di distrazione dovuti al loro essere figlie e madri del caos

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L’autista trombettista

Stamattina il risveglio non è stato un risveglio, è più stata una risalita da strati di coscienza, ciascuno dei quali, nel momento in cui lo superavo gridava: “Ma dove vai, torna indietro, dormi, pazza!”
Mi sono trascinata al lavoro come una che da settimane lavora, poi scrive progetti, poi va via, fa reading, poi torna, scrive, rilavora, riscrive, rimanda, rireading, ecc ecc senza mai fermarsi.
Sono stanca. Portare avanti le mie passioni mi stanca, moltissimo, in questo periodo, ma giuro che non è un post in cui mi lamento, ora lo vedrete.

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L’annosa questione della scarpa estiva

Come molte persone amo le scarpe.
Anche le scarpe con i tacchi.
D’inverno la mia flottiglia di scarpe anche con i tacchi mi soddisfa.
Affronto piogge, nevi, quotidianità lavorative, esigenze di sentirmi bella, comodità, corse, freddi con la scarpa adatta.
Vado a lavorare?
Ho la scarpa!
Esco con un tizio carino?
Ho la scarpa!
Devo correre e sgambettare?
Ho la scarpa!
Il problema mi nasce d’estate.
Ho sbagliato uno per uno tutti gli acquisti estivi, anno dopo anno, e continuo, inesorabilmente a fare errori.
Non c’è una scarpa una che io abbia acquistato per l’estate

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Post da cui si evince che credo ancora alla faccenda dell’amore, dibbrutto

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La madonna collage

Abbazia di Vezzolano, posto pazzesco, veramente mistico.
C’è una sala con qualche ex voto, oggetti che mi affascinano da sempre.
Guardate questo: 1913, un altro mondo, mio nonno in quella data aveva un anno. Se la sua famiglia fosse partita per raggiungere quell’abbazia sarebbe stato un viaggio.
Oggi io ci vado e ci torno in un’ora. Faccio la scampagnata.
Il mondo era altro, differente, queste donne portavano gonne lunghe di foggia ottocentesca, il voto? Ma per favore.
Di lì a poco, la guerra.
In quell’anno, nella vita di queste persone succede un fatto doloroso. Una cesura, uno strappo, che si risolve positivamente, che li fa pensare al miracolo, all’incursione del divino nella loro esistenza. Allora bisogna ringraziare il dio, raffigurando l’evento.
Chissà chi erano? Poveri o benestanti?
Chissà chi ha disegnato il ringraziamento. Qualcuno della famiglia o si è ricorso a un esterno, magari uno “specialista”, qualcuno che lo faceva di mestiere?
Qualcuno che li ritrae e ritrae il salvifico, l’eccezionale, il divino nelle loro vite con un’immagine appiccicata sul foglio, una madonna collage che salva e fa vivere.
Vite comuni, forse ora dimenticate o affidate alla memoria di pochi, famigliari, nipoti.
Quest’immagine ce ne restituisce un pezzo.
Un momento di quelle vite, ritenuto da loro stesse eccezionale, una data, un nome che le strappa un po’ all’oblio e ci fa fare l’esperienza dell’altro nel tempo, ci rispecchia, ci proietta, ci sposta, per un istante, altrove, ci permette una scheggia di identificazione.
Gente che era come noi siamo.
La potenza del racconto.

Contentezza urbana torinese

Così oggi dovevo fare tutti dei giri per vari appuntamenti e allora ho pedalato di qua e di là in città.
Sono passata da vecchi e nuovi quartieri, dal centro sabaudo ai bassi fabbricati industriali di inizio novecento, ora convertiti in studio di artisti, dai cortili nascosti di San Donato, alla Dora, al grattacielo di Corso Inghilterra, alle case di ringhiera con le facce della vecchia e nuova immigrazione, alle ville della Crocetta con la domestica che porta a spasso il cane dei datori di lavoro.
E sono tornata a casa felice.
Io amo la città, tantissimo, amo la forza vitale che si crea per lo stridere e il confliggere e il coabitare di poli distanti, il vecchio e il nuovo, chi è qua da generazioni e chi è appena arrivato, il centro e la periferia, l’innovazione e il degrado. Amo la dissonanza delle architetture, le stratificazioni che le generazioni hanno creato, amo anche il degrado, le merci nei negozi, i teatri d’avanguardia e i bar karaoke, i cartelli scritti a mano, le serate off, le boutique, la resistenza del vecchio al nuovo, l’arroganza di certa architettura che trasuda denaro, le soluzioni che la gente trova per ritagliarsi un pezzo di verde sul balcone, i mestieri che si inventa, i viali alberati.
Credo di amare la città perché mi dà l’idea di poterci trovare tutto ciò che mi piace stia nella mia vita, tutta questa differenza, equilibro dinamico, conflitto, sorpresa.
E amo questa città, amo Torino tanto, proprio tanto, perché riesce a contenere tutto questo, amo l’aria sabauda e le piazze sgarruppate dei mercati, l’inflessione piemontese-calabra, le ragazze nere dalle trecce coloratissime che mi cantavano in faccia mentre aspettavamo al semaforo, le madame biondo collina, gli studenti nerd del Politecnico, la tizia del negozio di stoffe che sta davanti a casa mia.
Mai avrei pensato di sentirmi così appartenere a un posto, di essere così in empatia con una città.
E invece sì.
E poi la bicicletta (se non ti stirano) che puoi guardare e passare veloce e sentire l’aria sulla faccia, ma non troppo.
Vabbé, un piccolo sfogo di contentezza urbana, ogni tanto, mica fa male, no?

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Post AATDG (ad alto tasso di generalizzazione) ma potenzialmente molto utile.

(Quindi non mi iniziate a scrivere: ma non sono tutte così, ma qui ma lì, LO SO).

Dunque, ecco il post:
Maschi, ora vi spiego una cosa fondamentale. Segnatevela, è importante, prendete appunti, vi eviterà dei litigi.
Allora, la vostra femmina di fiducia (fidanzata o amica o anche trombamica) talvolta verrà presa dalla sindrome della mancanza di autostima, confusione e perdita di senso totale e piangerà (non importa se in coincidenza del maledetto sbalzo d’umore mensile, potrà accadere anche random, questo dovete saperlo: NON E’ SOLO SINDROME PREMESTRUALE, capito? RIPETO: NON SOLO SINDROME PREMESTRUALE).
Ok.
Allora: se siete fra quelli che ancora non hanno capito cosa fare in questi casi voglio dirvi: va tutto bene. Insieme ce la si può fare. Ora vi spiego cosa fare. Segnate:

1 Domanda in tono moooolto dolce e sincero, del tipo: hei, vienei qui, cosa succede? Cosa c’è che non va?
Dovete far capire che ve ne frega tantissimo di sapere, che la volete ascoltare, che non la giudicate perché sta piangendo, né per ciò che dirà.
2 Contatto fisico: abbraccio, FONDAMENTALE. Dolce, non sessuale, dolce e caloroso, paterno.
3 Ascoltatela. Sarà confusa moccolosa e forse isterica. Lasciatela sfogare.
4 Se vi viene l’ansia che non sapete cosa fare datele dei fazzoletti e accarezzatela.
5 NON PERDETE LA CALMA. Voi siete l’unica fonte di calma in quel momento. Perdio non perdete la calma!
6 Se non avete capito un cazzo del problema fate domande.
7 Dite cose rassicuranti e carine e ricordatele che: è bella, in gamba, forse stanca, voi la apprezzate tantissimo, lei si sta buttando giù. Elencatele tutti i motivi per cui è la persona che vi piace.
8 A questo punto dovrebbe essere tornata nella condizione in cui se fate un po’ gli scemetti per farla ridere, lei riderà.
9 A questo punto chiedetele: come posso aiutarti? (Così se il problema continua a non esservi chiaro, potete raccogliere qualche elemento in più). E siate propositivi. Magari vi è venuto in mente qualche suggerimento. NON SIATE GIUDICANTI. Ripeto: NON SIATE GIUDICANTI. In questo momento siete solo dei facilitatori. NON MANDATE TUTTO IN VACCA con il giudizio o pretendendo che faccia come dite voi!
10 A questo punto lei inizierà a vedere soluzioni ai problemi che la affliggevano e vorrà condividere le sue idee con voi. Ascoltatela, siate partecipi.
Il risultato, che vi do con certezza al 99% se farete tutto bene è che: sarà affettuosa e carina con voi, vi sarà grata tantissimo, avrà voglia di abbracciarvi e baciarvi e ridere con voi e avrà quasi sicuramente voglia anche di fare l’amore.
Bon. Fine della crisi.
Potete andare a mangiare la pizza.

Poi non dite che non ve l’ho detto.

p.s. se qualche maschio sa dare istruzioni al contrario su tipiche crisi maschili gliene sarò grata