Su certi percorsi dell’infanzia

Mi capita a volte, mentre ho a che fare con adulti che io mi metta a immaginare che bambini sono stati.
Mi  pare talvolta che alla persona in questione sfugga per un attimo qualcosa: piccoli particolari fastidiosi e allora vedo bambine smorfiose, ragazzini prepotenti, o fragilità che lasciano intravedere voci grosse e umilianti, sgridate dall’alto; mi capita quando mi colpiscono certe fissazioni o certe irriducibili serietà, mi capita nello sfoggio della conoscenza di intravedere ragazzini zitti nella raccolta ossessiva di qualcosa, figurine o macchinine o sassi. E poi mi capita per meraviglia e curiosità. Ogni tanto qualche adulto ti permette di vedere cosa ne ha fatto di certi mondi meravigliosi dell’infanzia, come li ha trasformati, e allora è una festa perché vedi che cosa ne è stato di quel potenziale, vedi il fiorire del germoglio e quel movimento di crescita risuona anche in te e richiama la tua ragazzina, le parla di cose che verranno e di mattine e di trasformazioni, le parla della vita quando è buona e le dice che “si può fare”.

Ho una sorella che ha cinque anni meno di me. Ora cinque anni di differenza non sono nulla, ma ovviamente lo sono stati. Cinque e dieci, dieci e quindici, quindici e venti. Sono età così differenti. Ricordo bene il fastidio per quella marmocchia che voleva essere come me quando io ero così indaffarata in due movimenti ben distinti, opposti e faticosi: capire chi caspita ero io e impegnarmi a fondo nel sembrare come gli altri. Quel tipo di attività che solo l’adolescenza.
Perciò mi stupisco sempre quando mi vengono in mente certi ricordi di gioco con lei. Quanti anni avevamo quando li facevamo? Come facevamo a farli “insieme”? Eppure.
La casa e il giardino dei miei nonni sono stati pieni di percorsi che io e la marmocchia abbiamo fatto insieme.
C’era il percorso verso la casetta della paglia dove ti stendevi e poi avevi i fili fra i capelli, verso l’orto, verso la casa di Ines, la vecchia pazza da spiare, davanti alla quale potevamo condividere la paura e la curiosità dell’avventura.
Ma soprattutto ricordo questo.
L’auto vecchia di mio nonno parcheggiata in cortile, io e lei che ci mettiamo dentro e partiamo, io alla guida e lei di fianco o viceversa. Facciamo i rumori del viaggio, le manine sul volante sottile e sul cambio a imitazione dei gesti degli adulti, “arriviamo”, scendiamo ed entriamo nel “posto”. Il posto era la vecchia casa dei miei nonni, di fronte a quella nuova. L’ingresso a un metro dalla porta dell’auto parcheggiata. Ma noi ci arrivavamo dopo chilometri di viaggio immaginato. Entravamo nel posto. Una cucina piena di mobili vecchi stracolmi di cose e lo studio da pittore di mio nonno, assolutamente off limits per via della nostra tendenza a toccare i colori freschi sui quadri lasciati ad asciugare.
Nella vecchia cucina io e la marmocchia davamo vita alle situazioni dei posti dove eravamo capitate: un albergo, un bar, oppure un negozio. Aprivamo gli sportelli, tiravamo fuori vecchie tazze spaiate, apparecchiavamo tavole, servivamo pietanze, vendevamo merci, eravamo a turno commerciante e cliente o o eravamo insieme. A volte trovavamo tesori così incredibili che il gioco del viaggio si trasformava. Allora si facevano tende con sedie e vecchi lenzuoli e si diventava signore e principesse vestite di vestaglie lise e anche qualche abito ottocentesco di famiglia che quella scellerata della mia prozia ci ha lasciato usare e distruggere. Abbiamo percorso quei pochi metri fra l’auto e le due case tantissime volte, abbiamo creato situazioni differenti. Avevamo cinque anni di differenza ma so che abbiamo incastonato nel corpo e nella memoria quelle cose: gli odori, la luce, il luogo, quei percorsi, ma soprattutto il sapore che avevano. Di possibilità, di scoperta, di avventura.
Così, ora che la marmocchia guida, lavora e fa tutte quelle cose da adulta che faccio anche io, a volte, dopo che abbiamo diviso chiacchiere, amici e vino, viene il momento dei saluti in cui ci diciamo: Ciao, sorella, a presto, per nuove fantastiche avventure.
E lo diciamo così, un po’ distratte.
Ma io so che se c’è qualcuno al mondo che può dare alla parola “avventura” lo stesso significato a cui la bambina che è in me lo dà, quella persona è la marmocchia, e so che su quella possibilità di avventura, sui pomeriggi da marmocchia, ci ha edificato un po’ la vita, come me.
Credo che certi percorsi immaginari e la loro condivisione siano una delle cose più forti che ci portiamo dentro tutti.
Come tracce di un progetto, fondamenta di un quartiere, le basi della città che poi costruiamo e abitiamo nei nostri percorsi da adulti nel mondo.

micronarrazioni

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