Introduzione alla lettura 1: Sabotage aderisce a “Innamorati all cultura” e questo è il mio contributo
Introduzione alla lettura 2: non illudetevi di capire da subito cosa c’entra con questa giornata contri i tagli alla cultura perché si capisce solo alla fine, voi però non tagliate, leggetela tutta, sennò non capite.
E’ un periodo che non ho il callo della poesia.
Non mi vengono le poesie, niente.
Ed è inutile che io sia andata a capo,
per esempio ora
perché neppure questa sarà una poesia.
Questa sarà una prosa, ma scritta come una poesia,
che è meglio per chi legge dal computer,
che trattasi di una strategia editoriale:
travestirò questa prosa da poesia per non spaventare i leggenti*.
Comunque, dicevo, non ho il callo della poesia.
non ho quasi più il callo, anzi,
che prima avevo sul dito medio,
che i calli possono quasi scomparire
quasi
poi li puoi evocare di nuovo
come i fantasmi:
avevo infatti un callo
sul dito medio
nato alle elementari
coltivato alle medie
cresciuto alle superiori
e consolidato all’università.
Un callo blu d’inchiostro.
Per un po’, m’è durato,
poi ho iniziato a usare il computer
per ogni cosa
e il callo s’è ritirato.
Dunque niente più callo.
Una volta me lo guardavo
più o meno una volta al giorno e pensavo:
“il callo dello scribacchino”,
lo pensavo con un sottotesto di “eh, eh”
o, per essere meno onomatopeici e più chiari,
di autocompiacimento.
Sì, perché comunque già dalle elementari
io volevo fare la scrittrice, da quando alle mie maestre
era venuta questa fissazione
dei temi di fantasia.
Non so perché, prima ti davano
niente temi di fantasia
poi, un giorno, ecco i temi di fantasia:
te li davano insieme ad altri, tipo che ti davano la scelta,
il tema di storia, quello di raccontare i fatti tuoi e quello di fantasia,
tipo
“Una bambina d’altri tempi che si chiama come te”
oppure
“Un uomo con un ombrello, un cappello e una valigia…”
che secondo me per quest’ultimo dovrebbero dare un premio
alle mie maestre per averlo dato, un premio al Surrealismo nell’insegnamento.
Secondo me alle maestre che danno temi così
davvero le devono premiare, lo dico sinceramente.
Comunque, a parte il fatto che il tema dell’uomo con il cappello è il mio
preferito
della storia della scuola elementare,
il titolo più significativo nella mia storia personale di essere umano
è stato quello della bambina.
E sapete perché?
Perché di quel tema mi sono presa questo voto:
Superbravissima (sottolineato due volte e con due punti esclamativi),
hai la stoffa della scrittrice (sottolineato due volte e con due punti esclamativi),
che nell’insieme e unito alla rossezza della penna
risultava così:
Superbravissima!!
Hai la stoffa della scrittrice!!
Voi capite la soddisfazione.
Secondo me capite.
Quello che voi non sapete è che è da allora che ho deciso che
volevo fare la scrittrice:
se lo diceva la maestra,
e avendo provato io un gusto pazzesco mai provato prima
a descrivere quella bambina e a inventarmi quella storia
e se quel gusto mi faceva poi prendere voti così pazzeschi
e se potevo inventarmi un sacco di vite di bambine
e se questa cosa rendeva le maestre felici
e felice me
sommate tutte queste ragioni
secondo me io, in quanto bambina, all’epoca, ho fatto proprio bene
a pensare così.
Dunque alle medie, alle superiori, sino all’università
quando guardavo il mio callo da scribacchina
ero contenta di portare la ferita propria del mestiere che
avevo scelto.
Dopo ho iniziato a usare il computer per scrivere
e immagino
che ora dovrei essere fiera della mia perdita di vista
non fosse
che la perdita di vista l’associo alla decadenza fisica
e mi deprime
e non mi fa fare certo un “eh eh” metonimico
che cavolo.
Poi c’è la questione che dopo che sei cresciuto
voler fare lo scrittore
ti mostra lati più complessi del callo, del Superbravissima
e del giudizio delle maestre,
ma non credo di voler parlare di questo.
Non so neppure bene esattamente di cosa volevo parlare
quando ho iniziato a scrivere,
cosa normale quando inizio una poesia.
Però abbiamo detto che questa non è
una poesia.
Però, anche senza poesia,
a questo punto voi vi aspettate
la morale della storia
e io ritengo giusto che voi l’abbiate
e pure io ritengo giusto averla per me
che alla fin fine io questo son chiamata a fare,
quindi ora ci arriviamo.
Dovete avere solo un po’ di pazienza e ve lo racconto,
un po’ di pazienza ancora:
stavo ascoltando una canzone di Guccini,
una sola,
che ormai facendo tutto con il computer
non ascolto più i cd di fila,
ascolto la musica con la riproduzione casuale.
Allora I Tunes mi spara fuori questa canzone di Guccini,
l’ascolto
e penso che erano tre fantastiglioni di anni
che non ascoltavo il Guccini
che Guccini l’ascoltavo alle superiori
motivo per cui mi catalogavano – giustamente –
come adolescente triste.
E mi ha fatto un gran piacere riascoltare il Guccini
che mi son ritrovata a quelle sensazioni di quando lo ascoltavo
che pur essendo quello un periodo in cui il mio apporto al genere
umano
è stato solo in cumuli di tristezza
comunque il Guccini mi parlava di questo mondo anni Settanta
di queste adolescenze diverse dalla mia
che a me mi dava speranza
che pensavo che prima o poi anche io
facevo le rivoluzioni, facevo l’amore con i rivoluzionari,
la locomotiva, l’eskimo, la nostalgia di farewell
mi pareva che poi anche la mia adolescenza l’avrei
potuta ricordare così.
Dunque ero lì, a Guccini, che mi riportava alla mia adolescenza
fatta bella dall’immaginazione delle adolescenze descritte da Guccini
e godevo di questo tuffino nel passato.
A quel punto mi son guardata il dito
e ci ho visto il fantasma del callo
e ho pensato che anche il callo era un reperto di quello
stesso periodo lì
e mi son detta: guarda un po’ come la musica mi porta al dito
e di come il dito mi porta indietro
e poi ho pensato d’improvviso
che negli ultimi dieci minuti e più
ero stata totalmente nel passato, ma in epoche diverse
come per effetto della macchina del tempo,
perché prima di Guccini,
l’I Tunes aveva tirato fuori una canzone dei Radiohead
che ascoltavo sempre all’università
in un periodo di nuovo triste
che però quando ascoltavo i Radiohead
si colorava di grandi speranze di fare cose
tipo
andare un giorno a zonzo, tipo a Londra
e innamorarmi di un tipo molto Radiohead
e sfuggire a quella vitaccia che mi faceva schifo.
Poi ho pensato ancora che dopo i Radiohead,
l’I Tunes-macchina del tempo
aveva sputato un pezzo dei Pearl Jam, che apparteneva sempre
al mio periodo dell’università
ma prima dei Radiohead
quando avevo iniziato a frequentare un gruppo di tipi grunge
fra cui ce n’era uno che mi piaceva un sacco
ed io ero triste, ma questa canzone dei Pearl Jam mi faceva pensare
alla possibilità di frequentare il gruppo dei grunge
e alla possibilità di frequentare questo tipo grunge
e in questo modo di sfuggire alla tristezza.
Così dopo queste considerazioni, senza fermarmi
a riflettere sul fatto che sono stata un’adolescente piuttosto
triste
e sull’uso sfrenato che ho sempre fatto della mia immaginazione,
senza fermarmi a pensare a questo,
ho pilotato l’I Tunes-macchina del tempo perché mi facesse ascoltare
I just called you say I love you,
che è una canzone che ascoltavo da bambina
e che mi fa pensare sempre a mio papà
e che mi mette una felicità nostalgica pazzesca
e che chiude questo mio viaggio indietro nel tempo.
Ed ecco che cosa è successo
è successo che tutta questa faccenda che mi si è smossa dentro
mi è venuto naturale scriverla
e se fosse questo un altro periodo, io
l’avrei condensata in una poesia,
ma questo è il periodo che le poesie non mi vengono.
Non mi vengono per un motivo semplice
che sono andata ad abitare da un’altra parte
che ho cambiato lavoro
abitudini
città
giornate
orari
cielo
che passo le ore libere a esplorare dove farò la spesa
che autobus prendere
che sono cento occhi e cento direzioni
che nulla è scontato e tutto nuovo
e quando è così
è come se uno fosse spalmato in mille
diverse
direzioni,
come se avesse gli occhi
ad un lato della strada, i piedi in un’altra città, il cuore perso in mezzo
alle nuove lenzuola,
le gambe che inseguono quella ragazza laggiù
le orecchie tese ad ascoltare il suono di voci che potrebbero
diventare amiche,
quando è così
uno difficilmente è capace di sintetizzare.
Quando è così,
è il tempo dell’accumulo
degli indizi
dei cataloghi di cose,
ma non è
il tempo della sintesi
non ancora.
Perciò in un altro periodo
tutto questo sproloquio
sarebbe stata una poesia
che parlava del senso del passato
dell’immaginazione
della musica,
questa poesia sarebbe stata
malinconica e divertente
e di sicuro
avrebbe trovato il modo di mettere insieme
le maestre e l’I Tunes
in una pagina e mezza al massimo.
Ma ora no,
ora c’è questa costruzione di poesia,
lunga,
distesa,
con i punti molli,
l’imbastitura,
una poesia in prosa, srotolata e con le giunture a vista,
che fa fare tutta la fatica a chi la legge e molta meno
a chi scrive.
Questo lungo appunto di poesia
io ve lo lascio ora
nel giorno dei tagli alla cultura
per ricordare a me e a voi
che i tagli alla cultura vanno a toccare quelli come me
che lavorano per cucire e sintetizzare
e per dire che sarebbe un peccato
dover lasciare gli abiti scuciti
con gli orli a vista, i fili penduli,
le linee di costruzione
e le maniche,
una sì e una no.
Quelli come me,
è bene che facciano il loro lavoro
e condensino
e sintetizzino
e trovino immagini
per comprimere
e condividere
e regalare
la propria immaginazione.
Che questa cosa è un mestiere.
Chiedetelo alle mie maestre
se non ci credete.
(*Se qualche poeta vorrà uccidermi in seguito a questa mia affermazione
gli voglio dire che lo capisco, voglio ricordargli che andrà in prigione
e dunque che è meglio che non mi uccida, ma qualora ne provi il desiderio,
io, sappia, lo capisco.
Se invece qualche editor mi vuole insultare
per la mia folle strategia, sappia anche lui che lo capisco, sappia anche però, che se mi insulta anche io lo insulterò.)